martedì 30 novembre 2010

Eppi berdai, Edgar!



Accidenti, quando ho le paturnie mi dimentico delle cose importanti, e ricordo solo le paturnie.
E c'è mancato un pelo che dimenticassi il genetliaco di Edgar, cosa che non mi sarei potuto perdonare. Ora, chi non conosce Edgar non legga quanto dicono di lui, e quanto da lui puntualmente annotato e riportato: potrebbe farsi idee sbagliate e pensare che, come l'indimenticata Donatella Raffai, il ragazzo grondi dolcezza da tutti gli artigli. In realtà il nostro Edgar è come certi laghi prealpini, le cui superfici placide nascondono profondità vertiginose, abissi insondabili, ricchezze e tesori inenarrabili; e le onde apparentemente tranquille covano un'energia misteriosa e potente, che sorprende ogni volta in cui si manifesta.
Insomma, una personcina davvero speciale; al punto che noi suoi affezionati lettori ed amici abbiamo deciso di organizzare un riuscitissimo party tutto per lui, frizzante e piccante comme il faut. Nella foto, alcuni dei partecipanti mentre cantano "E lui è un bravo ragazzo, e lui è un bravo ragazzo..." (ometto il seguito per verecondia).
Da destra: Miss Marple che ha esagerato con la doccia solare, Lore! dopo la ceretta, Any-honey dopo aver litigato con un commesso di Zara, Poto dopo essersi scurito i capelli, Byb dopo la sbarbificazione e Principe Kamar dopo il saggio di lap-dance. Asa-Ashel e la Splendida Alexis non si vedono perchè uno stava preparando gli stuzzichini, l'altra i Martini molto, molto secchi.
Quelli che non sono nella foto erano in salotto impegnati nel tuca-tuca, visto che ormai il bunga-bunga ha stufato, mentre i classici van sempre di moda.

lunedì 29 novembre 2010

Raperonzoli cogliete



Passando con pensier per un boschetto,
donne per quello givan, fior cogliendo,
- To' quel, to' quel - dicendo.
- Eccolo, eccolo! -
- Che è, che è? -
- È fior alliso. -
- Va' là per le vïole. -
- Omè, che 'l prun mi punge! -
- Quell'altra me' v'agiunge. -
- Uh, uh! o che è quel che salta? -
- È un grillo. -
- Venite qua, correte:
raperonzoli cogliete. -
- E' non son essi. -
- Sì, sono. -
- Colei,
o colei,
vie' qua,
vie' qua
pe' funghi. -
- Costà,
costà,
pel sermolino. -
- No' staren troppo,
che 'l tempo si turba! -
- E' balena! -
- E' truona! -
- E vespero già suona. -
- Non è egli ancor nona! -
- Odi, odi,
è l'usignol che canta:
"Più bel v'è,
più bel v'è." -
- I' sento... e non so che. -
- Ove? -
- Dove? -
- In quel cespuglio. -
Tocca, picchia, ritocca,
mentre che 'l busso cresce,
ed una serpe n'esce.
- Omè trista! - Omè lassa! -
- Omè! -
Fugendo tutte di paura piene,
una gran piova viene.
Qual sdrucciola,
qual cade,
qual si punge lo pede.
A terra van ghirlande;
tal ciò ch'ha colto lascia, e tal percuote:
tiensi beata chi più correr puote.
Sì fiso stetti il dì che lor mirai,
ch'io non m'avidi e tutto mi bagnai.




Ho sempre amato alla follia queste schiamazzanti ragazze toscane, un po' oche, descritte da Franco Sacchetti quasi settecento anni fa. Quasi quanto le loro sorelle maggiori che ballano ancora oggi nella sala dei Nove, giù a Siena.
La parola raperonzolo , però, mi aveva conquistato e stregato già da prima: da quando, bambino avido di letture, ricevetti in dono le Fiabe dei fratelli Grimm. Probabilmente una parte non trascurabile di quel che sono arriva proprio da lì, da quei racconti cupi e inquietanti, simbolici ed onirici; ma questa è un'altra storia. Non potevo in ogni caso immaginare che quella parola sarebbe diventata una sorta di pericoloso talismano, e avrebbe avuto così tanta importanza nella mia vita.
"Oh Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli,
che per salir mi servirò di quelli!"
I ricordi si fanno confusi, so che per un po' li sciolse proprio per me, e sulla torre ci salii a lungo; poi non so bene se fu la strega a tagliarglieli, o se invece fu una decisione sua: ma la treccia non scese più.

(Tutto questo per dire che NON andrò a vedere il nuovo cartone animato della Disney)

sabato 20 novembre 2010

Voga, Tore!



Siccome devo attrezzarmi per affrontare una serie di dopo che si stanno profilando all'orizzonte, ho deciso di prendermi un vogatore. Pare che la mens sana non possa prescindere da un corpore sano; e poichè il mio, di corpore, sta cominciando a fare la ruggine e a perdere colpi, non vorrei mai fosse proprio questa la causa prima delle molte ubbìe psicologiche ed emotive che mi stanno travagliando da un po' di tempo in qua.
Il vogatore, di quelli classici a remi snodati e sellino scorrevole, me l'hanno quasi tirato dietro: un'offertona. Il tizio del Trony diceva che quel tipo lì non lo vuole più nessuno, quando va bene prendono quelli con il cavo da tirare, ma tutti comprano le macchine più stravaganti che promettono fisici di questo tipo senza fatica ed in non più di due settimane. Ammesso che sia vero, io non è che voglia diventare come l'Incredibile Hulk, azi! Ma il fatto di dovermi rassegnare alla mia pervicace singletudine non mi esime dal cercare di mantenere un fisico sufficientemente tonico ed efficiente, e dall'evitare di lasciarmi andare al rancoroso cupio dissolvi che ogni tanto mi tenta come la Fiesta Snack.
Dice: "Embè? Perché non vai in palestra come tutti gli altri? O in piscina, o magari a fare pattinaggio artistico, che in una tutina di lurex color fuchsia ti ci vedrei anche?" Ma perché non ce la farei, il mio lavoro non ha orari, ed il tempo libero che mi ritaglio me lo rubo a pezzi e a smozzichi quando capita. No no, al galeotto il remo si confà di più.
E un risultato l'ho già avuto ancor prima di cominciare. Ne scrivevo al bastone della mia vecchiaia
(nel senso che non manca mai di mazzuolarmi affettuosamente quando gli confido i miei sbarellamenti) e lui nel giro di nemmeno un'ora, da quel bravo scrittore che è, mi ha confezionato e regalato un raccontino delizioso tutto per me.
Ma mi è piaciuto talmente tanto che lo riporto per intero, sperando non se n'abbia a male.


Salvatore voga che è una bellezza: come è una bellezza anche lui, e tutte le ragazze gli corrono dietro. Ma lui, niente: pare preso solo dai remi, dalla barchetta, dal mare dove ogni pomeriggio scende con il sole o colla pioggia, e monta in barca, e via.
Voga, Tore! gli dicono tutti per prenderlo in giro: ma lui nemmeno li ascolta più.
Voga voga, un giorno arrivò, proseguendo sotto costa, a una piccola insenatura che non aveva mai raggiunto prima, e che nemmeno si vedeva dalla strada, che pure faceva ogni giorno per andare al paese vicino a lavorare come vigile urbano: gli unici momenti in cui dava retta a qualcuno.
Sorpreso dalla scoperta, accostò, e scese, portando la barchetta in secca; e rimase ancora più sorpreso nel vedere che, in fondo alla caletta, così minuscola eppure così bella, c'era una piccola grotta. Non più alta di una persona, larga appena il necessario per entrarci: e lui, di solito così indifferente a tutto ciò che non fosse il mare e i remi, così, senza pensarci, ci entrò.
La grotta si faceva subito un po' più piccola, ma fatti pochi passi prendeva ad allargarsi, e piano piano se ne perdevano le dimensioni. Aveva acceso una torcetta elettrica che portava sempre con sé, nel caso il buio lo cogliesse in mezzo al mare, per poter vedere una volta tornato a riva; ma con quella intravedeva appena uno spazio vastissimo, che doveva occupare tutta quanta la collina che stava sopra.
Così si avvide solo dopo un po' che c'era qualcuno: non capiva bene chi potesse essere, se uomo o donna, o se invece un animale. Sentiva il respiro, sentiva i movimenti, e incominciò a distinguere come una sagoma che si muoveva a fatica, come fosse legata o incatenata; la curiosità di scoprire di più lo spingeva avanti, quasi suo malgrado.
Era un asino: legato con una grossa corda che non solo gli impediva qualsiasi movimento ma lo fissava ad una specie di traliccio murato nella roccia, e con una specie di museruola che gli impediva di aprire la bocca. Per questo non emetteva nessun suono; ma dopo che Tore era entrato, e di più man mano che si avvicinava, si agitava sempre di più, non si sa per la paura di nuove torture o per il desiderio di essere liberato.
Tore si impaurì un poco, dapprincipio; e non per la reazione dell'asino, che certo avrebbe potuto, una volta liberato, prendersela con lui. Ma perché temeva la reazione, ben più pericolosa, di qualcuno che poteva sorprenderlo lì, se già non era presente e non si mostrava.
Ma la povera bestia gli fece pena: si avvicinò in silenzio, ma con modi tranquilli, e l'asino si calmò. Prese a considerare come fare per liberarlo, e poi come portarlo via: ma decise subito che la prima cosa da fare era mettere fine a quella prigionia, poi avrebbe pensato al resto.
Lo slegò, piano piano: così l'asino si calmò, e quando gli tolse la museruola non emise un lamento. Allora lo prese per la corda che aveva al collo, e lo condusse fuori, sulla spiaggia. Nel frattempo si era fatto buio: buona cosa, nessuno li avrebbe visti; e si avvicinò alla barchetta, che stava ancora lì, sulla riva. Ma la sorpresa più grande la ebbe quando vide che l'asino, senza alcuna esitazione, entrò in acqua e incominciò a nuotare. Mise la barca in mare, e lo seguì. Doveva esserci abituato, dato che quella sembrava essere l'unica via di accesso alla grotta; e l'asino prese la direzione opposta a quella da cui Tore era arrivato. Pensò per un attimo che così facendo si sarebbe allontanato troppo da casa, ma la curiosità di vedere dove sarebbe andato l'asino nuotatore era troppo forte.
Aggirato il promontorio, la costa diventava bassa e sabbiosa; Tore lo sapeva bene, e pensava che l'asino si sarebbe fermato lì; macché, continuò ancora. Superò il paese vicino, e proseguì verso il promontorio successivo; lo doppiò, e Tore sempre dietro; finché non vide un'altra caletta quasi uguale alla prima, e l'asino che usciva dall'acqua e si incamminava verso una casetta minuscola che era in fondo alla spiaggia.
L'asino incominciò a correre sempre più forte, e Tore, che aveva lasciato la barchetta sul bagnasciuga, correva anche lui; arrivato davanti alla porta, incominciò a ragliare forte. La porta si aprì, e si vide un lumino che si accendeva: e dietro al lumino, una voce d'uomo che esclamava : "Ciccio, Ciccio, sei tornato!".
Tore ebbe un attimo di esitazione; ma la voce era così bella che lo incuriosì: e si avvicinò alla porta. " L'ho liberato io" disse allo sconosciuto; "Mi chiamo Tore, vivo qui vicino; e tu chi sei?"
Lo sconosciuto si ritrasse di colpo; ma non chiuse la porta. Era un invito a entrare? Tore la prese così: ed entrò.
Si trovò davanti un uomo bellissimo, in una stanza poverissima ma tenuta con grande dignità.
"Mi chiamo Fredo", disse lo sconosciuto; "Vivo qui perché ho perso il lavoro, mi hanno tolto la casa, e mi è rimasto solo l'asino. Anzi, mi era rimasto; poi un giorno è sparito pure lui, me lo hanno rubato di sicuro. Ma ora me lo hai riportato! Come potrò ringraziarti, io che non ho nulla?"
Non vi racconto tutto quello che si dissero; per farla breve, Fredo aveva avuto un albergo, ma si era opposto alla malavita locale e per questo era stato emarginato da tutti. Ma la cosa più grave è che si era anche scoperto che era omosessuale: e questo per la gente del posto era quasi peggio.
Tore era sconcertato; e non solo per il racconto, ma perché, omosessuale pure lui, lo capiva bene per tutte le volte che si era sentito come uno straniero in patria; e perché tutto quello che stava capitando quella notte era quasi troppo.
Decisero che avrebbero reagito insieme a tutto questo, e sarebbero andati via: si diedero tempo per organizzare la partenza, e dopo una settimana partirono per un posto lontano.
Ora vivono insieme da dieci anni, e gestiscono un bel ristorante italiano a San Francisco.
E l'asino, direte voi?
Dopo quelle emozioni non ce la fece. Ora riposa in pace: ma Tore e Fredo lo ricordano con tanto affetto. Dopotutto era stato lui ad avere il merito di averli fatti incontrare.

martedì 2 novembre 2010

L'amore ai tempi del bunga-bunga



Dove eravamo rimasti? Che qui sono successe delle robe, ma delle robe! E in più mettici anche che sono svagato di mio, soprattutto di questi tempi. E' che a me m'ha rovinato il bunga-bunga, beninteso quello nell'accezione più ampia del termine: dicono logori soprattutto chi non lo fa. E io, appunto, non lo faccio. Neanche nell'accezione più ampia del termine.
Ah, già: dovrei parlare del fidanzamento cui avevo accennato tempo fa, e che procede a gonfie vele . Lo farò, perché è una storia tenera, toccante e ricca di assennati ammaestramenti. Ma non è urgente, non essendone io, purtroppo, il protagonista. Lo avevano capito fin da subito non più di un paio di persone, quelle che mi conoscono meglio, che sanno leggermi dentro e che non sbagliano mai nel farlo. Però sì, mi sono commosso, a volte fin quasi alle lacrime, per i molti commenti con le felicitazioni ed i mirallegri; e sono sincero, ho sfiorato il cielo con un dito nel constatare l'affettuosa considerazione che in tanti mi hanno dimostrato. Ma davvero non è cosa. A quel tipo di amore mi sa che farei bene a rinunciare. Non ci sono tagliato, c'è niente da fare. Sarà l'aria, sarà l'acqua, sarà predisposizione genetica: ma ogni volta che mi capita finisco per viverlo come una sofferenza più che come un'armoniosa ridefinizione di me stesso. Mi lacero, invece di completarmi.
E poi c'ho il chetone, che sarebbe l'acetone dei bambini. No , dico: l'acetone! Alla mia età non è serio! I miei coetanei se mangiano grassi in eccesso li trasformano in maniglie dell'amore, pancette e doppi menti; io invece ci faccio il chetone, che fin dal nome mi sta sulle balle. Dice che quando uno ne produce in dosi eccessive, poi sente uno stato permanente di languore allo stomaco, ha i battiti accelerati ed il cuore ballerino, gli si sfalsa il ritmo circadiano e gli si altera il rapporto sonno-veglia. Insomma, uno crede di essere innamorato e invece è il chetone. Ho chiesto al mio medico cosa può aver provocato tutto ciò, se per caso non c'è dietro qualcosa di più preoccupante e temibile. Ha fatto spallucce. Secondo lui è la conseguenza di un lungo periodo di stress, di protratte sollecitazioni nervose e di defatiganti traballamenti emotivi. Però il mio medico è il sosia sputato di mister Bean, e non so quanto credito possa dare alla sua diagnosi. Sta di fatto che se sono ridotto così senza essere fidanzato, figuriamoci cosa potrebbe succedermi quando lo fossi. Quindi per tutelare la mia salute dovrei darmi al bunga-bunga. Ma l'idea mi ripugna, cosa posso farci? Se penso che dovrei far scolpire una statua di marmo da far contemplare agli ospiti, con le fattezze di Superman ma con la mia faccia, dò di matto. Mi viene la depressione se penso al menu tricolore: mozzarella pomodoro e olive; tris di pasta al formaggio, al pesto e alla pommarola; gelato pistacchio, fragola e vaniglia. E non dico settemila in una busta, ma almeno una settantina di euro per ogni invitato glieli vorremo pur dare, no? E si fa presto a fare delle cifre. E gli invitati, quanto saranno contenti di mettere il tubino verde o rosso e il tacco quindici per settanta euro? E soprattutto: la parte di Lele e di Emilio, a chi la faccio fare? Anche per il bunga-bunga bisognerebbe esserci tagliati, e io, anche lì, non lo sono.
E ancora una volta mi trovo ad anelare al letargo che non posso permettermi, alla fuga che non posso fare, ai sogni che non posso mantenere, alle speranze che non posso più accarezzare.