domenica 29 novembre 2009

Auguri, biondino!


Ci sono le bionde, le false bionde e le bionde dentro. Poi ci sono i biondoni ed i biondini. I primi non mi sono mai stati simpatici, convinti come sono che l'essere biondoni sia una patente di sovrumanità, se non proprio di semidivinità. I secondi invece li adoro a prescindere. Forse perché, lasciandosi travisare dall'immagine di lindore, di garbo e di soavità che emanano l'immaginario collettivo li recepisce un po' come acque chete: tanto buoni, per carità, ma come dire...un po' insipidi. E tutto ciò è un madornale luogo comune, anzi, un'ingiustizia bella e buona.
Perché il fascino del biondino nasce proprio dal contrasto fra l'aspetto angelico ed il carattere sempre pepato, che secondo me maturano proprio per reazione al fatto di essere presi poco sul serio. Edgar, per esempio, è biondino fino al midollo: capelli coloro dell'oro, occhi come laghetti di montagna, lineamenti dolcemente regolari, modi riservati ed un po' timidi. Ma se lo conosci ne intuisci il carisma, la personalità complessa ed affascinante, il carattere virile e senza fronzoli. E se lo conosci capisci subito che ha un cuore grande così; e che quegli occhi azzurri, se ti ci tuffi, ti permettono di arrivarci dritto e filato; e che quei capelli d'oro sono la bella luce che manda da dentro.
Tanti auguri, caro Edgar. Come pensiero per il compleanno ti riporto il bell'oroscopo che Rob Brezsny questa settimana ti dedica.
Un abbraccio!

Il modo più sicuro per sconfiggere il sistema, mio caro, è fare finta che non esista e costruirne uno tutto tuo. Il metodo migliore per lasciare i tuoi avversari a balbettare davanti allo specchio, dolcezza, è ignorarli. Questo non significa, tesoro, che dovrai essere un narcisista che ascolta solo se stesso. Sorridi mentre spieghi agli altri perché il tuo modo di fare le cose è il migliore. Recluta preziosi collaboratori con la forza irresistibile del tuo carisma.

Hallo Kitty frattaglie





Che le frattaglie, le coratelle e le trippe fossero buone lo sapevo da un pezzo. Che potessero essere anche carine l'ho scoperto oggi. Proprio vero, fino alla bara tutto s'impara!

sabato 28 novembre 2009

Gaio Duecento


E sono di nuovo giorni ripiegati e dolenti. Frenetici nello spietato scatenarsi di assillanti incombenze, ed insieme torpidi e dolenti per la stupefatta inerzia con la quale mi trovo a trascorrerli, e a farvi fronte. Un'inerzia che stupisce anche me, e che mi puzza sempre più di sconfitta definitiva: una Caporetto dove sembra impossibile qualsiasi ipotesi di contrattacco; qualsiasi speranza di riscossa. Cerco di sostenermi con le attenzioni e le sollecitudini che mi regalano alcune anime elette ma troppo lontane per soccorrermi in questi momenti; e più mi ci aggrappo più ne divento famelico, e meno riesco a saziarmene. Vergognandomi di questa bulimia, rischio di diventare anoressico.
Se mi guardo dentro provo un misto di compassione e di schifo. E questo non aiuta; questo mi preclude quelle vie di fuga attraverso le quali, un tempo, riuscivo scaltramente a sfangarla.
Ma questa sera ho bisogno di fermarmi, e di combattere questo strano freddo che sento nelle ossa. Torno a cercare calore e ristoro nel mio adorato Duecento, che come al solito non mi delude, e mi regala questo meraviglioso sonetto gay di Nicola Muscia da Siena:



Giùgiale di quaresima a l'uscita,
e sùcina fra l'entrar di febbraio,
e mandorle novelle di gennaio
mandar vorre' io a Lan ch'è gioi' compita;

ch'i' l'amo più che nessun uom la vita,
ed e' mi tien per suo e sono e paio:
ed e' se ne potrebbe avveder naio;
e a lui vado, com'a la calamita

va lo ferro, che è naturaltade:
Amor comanda, e così vòl che sia,
ched i' faccia per la sua gran beltade,

ch'è tanta che contar non si poria;
ma non dico così de la bontade
né del senno, per ciò ch'i' mentiria.

Ho scritto a bella posta "sonetto gay" perché in esso c'è la serena, piena consapevolezza della naturalità insita nell'amore omosessuale. Una consapevolezza non soggettiva o occasionale, ma alimentata dall'humus culturale di un'Italia che attraversava uno dei periodi più straordinari della sua storia. Ne offro, per maggior chiarezza, una mia versione in lingua corrente.

Giuggiole a Quaresima adempiuta
e susine agli inizi di Febbraio
e mandorle novelle di Gennaio
vorrei donare a Lano, mia gioia compiuta;

che l'amo più della mia stessa vita,
e lui mi ritien suo, e questo io lo so:
che se ne accorge pure chi veder non può;
e a lui vado come alla calamita

va il ferro, e quest'è naturalezza:
l'Amore mi comanda, e così vuole che sia,
e che lo faccia per la sua gran bellezza

che è tanta che spiegarla non potrei;
ma non dico così di sua bontà
nè del senno: che altrimenti mentirei.

Che meraviglia questo Nicola innamorato e fiero di sapersi corrisposto, orgoglioso della sua passione e dei suoi sentimenti! Che dolce questo Nicola che vorrebbe regalare al fidanzato cose che manco esistono come le susine di Febbraio o le giuggiole d'Aprile. E pazienza se il Lano del suo cuore è bellissimo ma stronzo, e anche un po' svaporato: mica sempre ci si innamora delle persone perfette, no? Che poi anche Nicola, a dirla tutta, non è uno stinco di santo nemmeno lui, e quelle malelingue dei suoi amici dicono che è una strega capace di trasformarsi in gatta "...e va di notte, e poppa le persone"; ma secondo me è tutta invidia di quelle Kretine!

sabato 21 novembre 2009

Auguri, principino!


Quando nacqui faceva così caldo che le mie fate madrine, oppresse dall'afa, sbagliarono tutti gli incantesimi. Così non soltanto venni fuori un pasticcio, ma per soprammercato risultai anche sfortunato al gioco, sfortunato in amore e sfortunato negli affari. Accortesi del disastro, le scriteriate mandarono a chiamare in tutta fretta la vecchia fata Tamarinda. " O ragazze" disse lei dopo essersi resa conto dell'accaduto " qui ormai la frittata è fatta e io posso fare ben poco; tuttavia a questo sgorbietto voglio fare un regalo che lo possa risarcire di quanto voi disgraziate gli avete tolto". Agitando la bacchetta magica sulla mia capoccetta pelata recitò:
"Stranga bulanga masanga viggiù
che tanti amici possa aver tu.
Magalli fiorello ventura timperi
tu possa aver tanti amici sinceri.
Normografo pantografo rapidograf matita
siano gli amici il sorriso della vita".
E sparì, lasciando nell'aria un forte odore di pastiglie Valda.
L'incantesimo di Tamarinda, devo ammetterlo, funzionò: e la mia vita fu costellata di amicizie in grado di darmi quelle felicità che mi venivano negate in altri campi. E lo è tutt'ora.
Grazie all'incantesimo tanti amici sono diventati parte di me, rimanendo tali anche quando il destino e le vicissitudini hanno fatto in modo di allontanarmeli materialmente, o di allentarne la frequentazione. Ma quando parti separate si ricongiungono, è sempre una festa. Come con A.
A. è quello della foto. Cioè, ovviamente non è lui, ma gli somiglia come una goccia d'acqua. Lo conobbi parecchio tempo fa, e fu il primo che ribattezzai "Principino" per la grazia aristocratica dei lineamenti, dei modi e dell'eloquio, oltre che per la nobiltà delle idee e dei sentimenti. Ma anche perché, come nel "Piccolo principe", ai tempi della nostra frequentazione credevo di insegnargli la vita e invece la imparavo da lui. Passammo insieme bellissimi momenti; poi, come spesso succede, la vita ci ha un po' allontanato, lui impegnato nei suoi amori esaltanti, io impegolato nei miei amori impossibili. Ma non ci siamo mai persi di vista, e l'affetto di cui continua ad onorarmi è quel tipo di felicità che sanno darmi solo gli amici più cari.
Se questa volta parlo di lui è perché domani è il suo compleanno, e ci tengo a fargli gli auguri Urbi et Orbi, da quella persona speciale che è.
Grazie, Principino: ti abbraccio forte.


venerdì 13 novembre 2009

Omero, Sorgi e i bandoleros


In un bell'articolo apparso oggi su "La Stampa", Marcello Sorgi dipinge con immagini molto efficaci l'attuale situazione della maggioranza di governo. Il Presidente del Consiglio vi è ritratto come un toro che nel corso di una corrida scorrazza furioso ed apparentemente invincibile nell'arena, quando ad un tratto, zac! uomini dalle movenze sinuose e leggiadre lo infilzano sul groppone con le banderillas acuminate e variopinte, che senza provocargli dolori insostenibili ne fiaccano però irrimediabilmente la resistenza e l'aggressività. Secondo il bravo giornalista, questi uomini da assimilare ad alcuni esponenti del Governo in carica si chiamano "bandoleros". "Quandoque bonus dormitat Homerus", ogni tanto anche Omero sonnecchia: lo sappiamo, è una cosa umanissima che ha fra l'altro il merito di renderci più simpatici e meno algidamente perfetti tutti coloro che grazie alle proprie capacità sarebbero altrimenti destinati a rimanere su inarrivabili e intimidenti piedistalli. Perché, dottor Sorgi, il bandolero è il fuorilegge, il bandito che , stanco, scende la Sierra misteriosa sul suo cavallo bianco; come nel Tango delle capinere che sentivo cantare dai miei vecchi durante le veglie invernali in tempi ormai remoti. Quelli che infilzano il toro nell'arena si chiamano "banderilleros" dal nome del loro strumento di tortura.
Non per altro, ma per la memoria dei miei vecchi romantici e canterini mi sento in dovere di segnalarLe un errore che loro riterrebbero imperdonabile.

mercoledì 11 novembre 2009

Permitte divis cetera


"Guarda come si staglia il Soratte sotto il candido
manto di neve, e come le fronde stremate
faticano a reggerne il peso. Gelo tagliente, i fiumi
e i ruscelli si sono rappresi.
Dissolvi il freddo nutrendo il camino
con larga provvista di legna, o Taliarco;
e senza avarizia mesci il vino di quattro anni , e puro,
dall'anfora sabina col manico doppio.
Tutto il resto, lascialo agli dei.
E' bastato che facessero cessare i venti in lotta
sul gran ribollire marino,
perchè di colpo i cipressi e gli orni vetusti
non s'agitassero più.
Su cosa ti attende in futuro, rinuncia ad indagare:
qualunque altro giorno ti aggiunga il destino,
come quello trascorso,
ricorda di segnarlo in attivo. "


Quanto mi è sempre piaciuta, questa poesia di Orazio! Oggi pomeriggio, lavorando forsennatamente, pieno di zelo mi proponevo di continuare il racconto di San Martino, e per soprammercato di parlare del bellissimo blog alchemico-gastronomico che Asa-Ashel, zitto zitto, manda avanti da qualche tempo parallelamente ai suoi più noti Frammenti. Poi la notte s'è fatta di cobalto gelato e trapunto di stelle come la volta degli Scrovegni, ed è stato bello riempire il camino coi grossi ceppi di vite vecchia che fanno una fiamma odorosa e pulita. Taliarco non c'era, e quando mai, ed era ormai così tardi che ho cenato da solo. Ma ho trovato un perfetto merluzzo dissalato da poco, che ho fatto appena scottare al vapore in modo da poterlo dividere in larghe, morbide falde; e l'ho condito con un giro d'olio ragusano ancora fragrante di frantoio, e poche gocce di limone d'Albenga. Poi l'ultima lattuga dell'orto, che adesso sa di carciofo e non teme nè il sale, nè il timido aceto di Moscato, e che con le grosse, morbide fette del nostro pane odoroso di castagne diventa un mangiare da re. E ancora, un niente di gorgonzola verdissima e pestilenziale e verissima. E una bottiglia di Mondeuse della Savoia fatta da un ragazzo coi capelli neri come il peccato, i muscoli tesi come il desiderio, e gli occhi dolci e profondi come un lago delle Bauges.
E chi vorrei con me non c'è, ma non è lontano. E allora sì, per questa notte tutto il resto lo lascio agli dei.

martedì 10 novembre 2009

San Martino un anno dopo


Il tempo degli uomini non scorre, rotola. E' una ruota in movimento che percorrendo il suo tragitto lineare gira in continuazione su se stessa, e costringe ognuno dei punti della sua circonferenza a tracciare un'orbita perfettamente costante. Dopo giorni e giorni di pioggia e di grigio, Novembre si è tinto d'oro per ricordarmi che domani è San Martino, per celebrare la piccola estate miracolosa che anche a questo giro non sgarra, e per costringermi ancora una volta a fare i conti con i miei ricordi. Lo scrivevo esattamente un anno fa, che domani "...è uno di quei giorni in cui i ricordi ti assolgono anche se non vorresti", solo che all'epoca me la tiravo di più, dicevo e non dicevo, credevo di essere più figo sostituendo le allusioni al racconto, le metafore alle immagini. Adesso ho più voglia di raccontare e di raccontarmi; e se lo scorso anno mi dedicavo un San Martino severo ed austero per esorcizzarli, i ricordi, e per riderne, stavolta me lo regalo fiabesco e leziosetto, molto compreso in se stesso e molto calato nella parte, generoso sì, ma non al punto da rovinare la splendida e griffatissima mantellina di broccato, limitandosi ad asportarne un cicinin giusto giusto per passare alla storia. E' il San Martino di Zenale e Butinone, ospite d'onore in un polittico che amo, e che si trova a Treviglio: dorato, scintillante, rutilante ed improbabile come la piccola estate di domani.




PS: dice: "Embè? E il racconto? E i ricordi? Tutto 'sto pippone e poi siamo sempre nel filare delle uve brusche?" Eh, che diamine, un po' di pazienza, no? Prossimamente, su Rieduchescional Channel!

lunedì 9 novembre 2009

Appunti di viaggio- la Javanaise

Non importa la durata, non importa la meta, non importa lo scopo: un viaggio, per essere veramente tale, va fatto prima di tutto nell'anima. Due giorni mordi-e-fuggi in Francia per lavoro possono ridursi a replicare il mortificante tran-tran delle solite fatiche; ma se si trova la chiave giusta possono essere un viaggio. Solitario ma non solo, questa volta: sarà per questo che la chiave l'ho trovata quasi subito in questa canzone ascoltata quasi subito appena varcata la frontiera.
Nella sua svagata tristezza, nel suo sfumato rimpianto, nella sua affettuosa atmosfera autunnale mi sono subito riconosciuto; ho trovato il sapore di questi miei giorni senza disperazione, non avari di gioie ma non prodighi di speranze.



La vie ne vaut d'etre vécue sans amour
Mais c'est vous qui l'avez voulu mon amour
Ne vous déplaise
En dansant la Javanaise
Nous nous aimions
Le temps d'une chanson.


"Non vale la pena vivere la vita senza amore. Ma sei tu che l'hai voluto, amore mio. Non ti dispiaccia. Ballando la Javanaise ci siamo amati
per il tempo di una canzone." Di una bella canzone, per di più.

Il ragazzo che vende selezioni di té pregiati ha l'aria avvilita di chi scopre di aver fatto male i suoi calcoli; ma dalla colta e cosmopolita Lione non immaginava che in questo lembo di Francia profonda e un po' zotica dove ci siamo trovati uno accanto all'altro la gente è affezionata senza cedimenti a quella brodaglia chiamata "petit café". In un momento di tranquillità gli ho chiesto di vendermi qualcosa dei suoi tesori. E di parlarmene. Ha cominciato ad aprire scatoline e sacchetti con aria furtiva, porgendomele esitante per farmele annusare, arrossendo perfino un po', come se sottoponesse al mio fiuto parti nascoste della sua epidermide. E' grazioso nei suoi modi impacciati da timido, nel suo parlottare sommesso ed un po' bofonchiante. Da una delle scatoline aperte all'improvviso si sprigiona come un afrore di vecchio camino fuligginoso. Non conoscevo il Lapsang Souchong, e rimango conquistato dall'odore fumoso di torba e di wisky stravecchio, di sigaro toscano spento e di aringhe. Ne compro un bel pò, il prezzo mi sembra ottimo, per cinque euro me ne riempie un sacchetto grosso così e mi fa un sorriso tutto per me, di quelli che non hanno prezzo. Me lo preparo appena arrivato a casa, e lo faccio come piace a me, ben carico e con una lunga infusione. Ha dopo le prime note un po' untuose che sanno di speck e di würstel, rivela un sapore decadente e misterioso di incenso e di fumeria d'oppio , di ripostiglio pieno di damaschi polverosi e di vecchie baldracche parigine arrochite da troppe Gauloises. E di sacrestia tirata a lucido, di fondaco, di Oriente e di sgabuzzino delle scope. E' un flash, non ricordavo da tempo sensazioni gustative così potenti nell'evocare suggestioni, sensazioni, ricordi. E mi accorgo che è un po' come la canzone di Serge Gainsbourg, come le sue atmosfere di stanze in penombra e di letti sfatti, di alberghetti male in arnese e di decorose, ma tetre case di banlieue.

domenica 1 novembre 2009

Veglia alla vigilia dei Morti


Una volta non c'era Halloween, e i Morti tornavano sulla Terra la notte di Ognissanti. Erano morti buoni, e non facevano paura: solo tanta compassione. Per propiziare la loro venuta tutta la famiglia recitava il rosario a luci spente, e al chiarore del fuoco morente. Poi cominciava la lunga veglia. Si mangiavano castagne bollite attorno al camino, e si beveva vino dolce lasciando una finestra socchiusa, in modo che i morti potessero entrare. E si ingannava il tempo ascoltando i racconti dei vecchi. Racconti di terrori e di magie, racconti di streghe e di masche e di creature misteriose e di spiriti: le potenze non celesti e non infernali che però convivevano con la mia gente da chissà quanti secoli o millenni. Ricordo da bambino una veglia di queste, a tener banco e a raccontare era la mia bisnonna, una che la sapeva lunga sulle bestie, sulle erbe e sulle pietre, tanto che dicevano fosse una mezza strega anche lei. Non aveva paura nè delle masche nè degli spiriti, perché sapeva come combattere e sconfiggere le une e gli altri. Ma le sue esperienze erano sconfinate, e terrorizzanti.

Ho trovato per caso un qualcosa di analogo nella testimonianza raccolta presso un vecchio ultraottantenne di Roccaverano, nell'Alta Langa. La riproduco quasi integralmente, anche se molto lunga. E' una bella lettura. Sa di castagne bollite, di vino dolce, di nebbie e di fumo. Chi ha voglia di vegliare i Morti, mi faccia compagnia.



"Io avevo quattordici, quindici anni; quando ho visto il "chiaro" avevo diciassette anni, sono del ’14, quindi… Ho visto il chiaro a Menasco, è in campagna, era un chiaro che dire non si può dire, ma si vedeva che girava alto così da terra, un metro da terra, faceva un’ombra così e chiaro tutto intorno, tutto uno splendore così. Di notte quando si girava senza luci normalmente si presentava nell rivass (il burrone, n.d.r) , in posti dove a piedi non si può neanche andare, andava veloce come uno a piedi , e poi ogni tanto si spegneva , ma un secondo eh, faceva che spegnersi, faceva soltanto un pezzetto come di qui a là, poi di nuovo faceva chiaro. Io l’ho visto, urca!, quando l’ho visto da vicino avevo una pietra da tirargli, mi è caduta di mano dalla paura. Pensavo che fosse un uomo, invece non c’era nessuno, era grosso, faceva uno splendore come una lanterna, non una luce viva, una luce un po’ come quella di un lanternino, quei lanternini di una volta che facevano una luce un po’ annebbiata, un po’ scura, una bella luce, si vedeva. Poi anche buonanima di mio papà, una volta gli ho detto: "Guarda che era sotto il rivass ". "Vado a vedere". Lui non aveva paura. Quando era sul rivass l’ha visto il chiaro da sotto che girava, poi s’accendeva e si spegneva, poi s’è girato verso di lui e lui ha avuto paura. Non si poteva capire cosa fosse. Battistino anche l’ha visto. Non si poteva capire se ci fosse qualcuno, si vedeva che c’era qualcosa lì, ma non che si potesse capire, come se ci fosse un nido, un nido d’uccello grosso, c’era un po’ di volume lì. Non era una luce come una lampadina ma come una lanterna. . Di luci così a volte c’è il sole, a volte c’è la luna che picchia in un vetro e manda splendore, ma è una luce che si conosce, invece quella là andava, nei campi, attraversava anche la strada. Una volta andando a Mombaldone, lui saliva il rivass andando su dove i nostri vicini avevano la legna , io credevo che fossero i nostri vicini, ma quello lì è salito su come niente, andava tanto forte in salita quanto in pianura e l’altezza era sempre uguale. Poi ha girato, è sceso, veniva vicino a me e io avevo una pietra da tirargli ma avevo paura, non sapevo perché… Questo è successo a Menasco; gli altri l’hanno visto altri giorni, altre sere, sempre in quel periodo ln giro, l’hanno visto giù dal Bormida, l’hanno visto sopra dallo stradone, sempre in quella zona lì.

Poi un’altra, che dicono di non raccontare: io andavo a vegliare, andavo in giro in compagnia, arrivavo a casa di notte all’una , poi mangiavo. C’era un cassetto nel tavolo e c’era della roba dentro da mangiare, accendevo il lume perché allora non avevamo la luce elettrica, e sopra dormiva mio fratello, sopra si sente un tac, tan tan tan…,c’era una stanza di là, lui apre il lucchetto, ma non c'era nessuno. Avevo sentito come dei passi, pensavo fosse qualcuno di quelli che erano a dormire che veniva a vedere. Ho perfino battuto nel tavolo, ma non si è neanche rotto. Le porte non si chiudevano con la serratura, avevano un puntello così contro la porta, se c'era qualcuno come han fatto a uscire non so, dove sono andati nemmeno. Quando mio fratello ha acceso la luce nella stalla al mattino per pulire i buoi , come l’ha accesa ha preso uno schiaffo e non c’era nessuno. Questo è successo nello stesso periodo del "chiaro" e nella stessa zona, era nella semina del grano che ha preso lo schiaffo .

Sempre nella cascina a Menasco, che si passa da qui andando giù dove c’è quella segheria, abitavamo là; io e mio fratello Edoardo, quello che è morto, dormivamo nella stessa casa ma dalla parte di là. Una notte ci tirano via le coperte da addosso, ma noi eravamo svegli, non dicano che sognavamo perché uno solo può sognare, non tutti e due lo stesso sogno… Tira da una parte, tira dall’altra, andavano via le coperte da addosso. Eravamo svegli, di sicuro, perché quando sogni è diverso, il sogno lo vede sempre uno, non che due possano combinare un sogno solo. Non c’era nessuno, c’erano solo le coperte che andavano via. Secondo me era una fisica, un’invidia. Io ho idea che sia un’invidia, una fisica forte, che siano magari quelli deboli che la sentono, e la patiscono, quelli che hanno più paura, magari che gli faccia effetto. Si pensava che qualcuno più forte, mentalmente più forte, agisse negativamente influenzando delle persone più deboli che subivano queste cose, che però non è che non si vedessero, erano create apposta da qualcuno. O da qualcosa. Si formavano anche delle bestie, si formavano anche diversamente, allora si formavano veramente. A Garbavoli c’era una capra… tua nonna Santina lei lo sa perché andava a portare le bestie al pascolo anche lei, lei lo sa, non è che lo dica io…la capra più bella che avevamo noi , la capra più buona che era pronta ad avere i piccoli, se passava da quella casa là pativa, la capra non voleva più andare avanti di lì, addirittura si inginocchiava e non passava più, non è più passata di lì. Però mia madre diceva: "Non andate più di lì a portare le bestie al pascolo, andate dall’altra parte. Qualcosa sapeva, mia madre. Le altre capre andavano avanti, questa invece andava fino vicino a quella casa, poi non andava più avanti. E poi a questa capra i topi sono andati a fargli i buchi sul collo che si vedeva l’osso, e va be’, una sera le fanno un buco, l’altra sera le fanno un buco, buonanima di mia madre le ha fasciato il collo. Anche se era fasciato lo facevano di nuovo, buona fine che le hanno fatto cinque o sei buchi, la capra non stava più su da coricata. Poi c’era mio cognato Ernesto e diceva "Ma cosa ho da fare a questa capra?". Mio padre gli ha detto "La ammazzi e poi la sotterriamo prima che patisca troppo". E così ha fatto, ha fatto un bel buco, l’ha ammazzata e dopo che era sotterrata han sentito tutti che belava da sottoterra, l'hanno sentita tutti. Non è che lo dica io, ma tua nonna lo sa, andava dietro anche lei alle capre, vedeva che s’inginocchiava e non andava avanti perché c’era una fisica , c’era una potenza, c’era qualcosa. Masca vuol dire strega. Sapevamo chi erano, lo sapevamo, ma non potevamo dirglielo eh! A Spigno all’epoca, o forse prima del ’14, ci sono state alcune streghe bruciate da gente che non ne poteva più, hanno bruciato diverse donne, poi avevano detto che il Papa le ha benedette, che le aveva tolto la potenza, e che non bisognava più bruciarle. D’ogni modo adesso no eh, ma parliamo di 70-80 anni fa. Non capitava solo a me, anche agli altri, qualcosa vedevano tutti, avevano quella potenza lì ‘ste streghe. Ai Gherbè , quando siamo andati ad abitare noi, i vicini ci avevano detto: "Quando pulite il porcile non lasciate uscire il maiale e andare da quella parte, che se va di lì muore. Noi non ci credevamo, il maiale era uscito, era andato là ed era morto subito. Tutti gli anni, tutti gli anni, se mollavano di là il maiale moriva, tutte le volte. Si allontanava un po’, a volte lo vedevano, allora faceva 50 metri, 100 metri, e il maiale moriva, andava verso quella casa là, da quella casa là a noi ci saranno stati 100 metri… non c’era niente da fare. Sempre lì ai Gherbè mio fratello Secondino era arrivato una notte tardi per andare a dormire c’è una scala, per salire, lui sale la scala, sempre a quei tempi là, saliva la scala per andare di sopra, dice che gli è venuto incontro un ribatòn ,come qualcosa di grosso che rotola... non ha capito cos’era, si sente rovesciare, sente paura, e al fondo aveva sprangato la porta, non poteva andare via, (ma) in casa non c’era nessuno. E queste cose strane, queste potenze, si formavano e disfavano, io non so come sia. Un po’ più tardi , un po’ prima della seconda guerra, dormivamo, ma io ero sveglio, e poi avevamo Ivana piccola, mi sembra, eravamo svegli, e vicino alla porta bussano dieci o dodici volte, ma forte, che io volevo saltare giù a prendere la rivoltella; ma prendo la rivoltella, vado là, apro la porta, in sostanza che non ho trovato nessuno. Ma la porta l’hanno picchiata eh, non che sia stato un gatto, la porta l’hanno picchiata. E io ho aperto, se c’era qualcuno gli sparavo. Non c’era nessuno. Intanto facevano paura. Tutte robe che allora c’eravamo dentro, uno diceva, l’altro diceva… Io dico la verità: da dopo che eravamo lì a Menasco, di notte, andare a dormire, andare, tornare a casa, avevo paura, e fuori no, fuori in qualunque posto andavo io non avevo paura; quando arrivavo a casa avevo paura, andavo lo stesso eh, però avevo paura perché all’aperto ci vedi, mentre in casa si poteva nascondere qualche pericolo). Si, c’erano i furbi, c’erano i trucchetti, che facevano per farti paura. Ma era un brutto vivere eh allora!, perché se uno ha un po’ d’invidia va lì a farti paura di notte… Fare paura è un conto, perché andavano anche a far paura delle volte, magari andavano ad accendere una luce, vuotavano delle zucche e poi ci mettevano una luce dentro. Erano scherzi, però si capivano, si capiva che era uno scherzo che avevano fatto. Ma diversamente, quello che non capivi… era brutto. Io quella faccenda lì del "chiaro"… ti viene incontro, si spegne, poi ti viene incontro, faceva un po’ d’ombra, questo chiaro faceva luce, dentro c’era un affare un po’ più scuro, persone non erano. Io non ho potuto capire niente, solo tanta paura. A raccontarle adesso i giovani non possono credere, dicono "Raccontano delle balle", ma sua nonna può dirlo, sua nonna qualcosa l’ha visto e può dirlo. Sua nonna ai Gherbè si ricorda, avevamo, di sopra… c’era il solaio, con i suoi legni e le sue travi , e un bel momento, in quel solaio lì, si sono incrociate tutte le travi, una girata di qui, una girata di là, e il solaio è andato all’aria. Poi l’hanno aggiustato, sono tornati a metterli a posto, ma chi è che è venuto ? Le travi erano a posto, il solaio era sano. Le abbiamo trovate così senza che nessuno le avesse toccate....